Della speciale affinità tra il talento di Piotr Aderszewski e il linguaggio musicale mozartiano si è già scritto molto, e giustamente: pochi interpreti attuali possono vantare una pari capacità nellaffrontare, al contempo con rispetto filologico e originalità, le pagine di un autore la cui apparente limpidezza è talvolta sin troppo facile da fraintendere.
Pochi interpreti, inoltre, possono permettersi tanta personalità ed autorevolezza nella lettura di Mozart ad unetà ancora relativamente giovane, smentendo così il luogo comune certo non privo di fondamento per cui le pagine del salisburghese, e specialmente quelle pianistiche, preferirebbero un esecutore di avanzata maturità. Brillante di un forte carisma, oltre che di profondità artistica, il Mozart di Anderszewski ascoltato dal vivo non fa in realtà desiderare minimamente alcun più anziano sostituto dellinterprete. Le esecuzioni padovane dei concerti K. 453 e K. 456 possono, senza timore, essere accostate ai risultati del miglior Alfred Brendel: eppure, non si deve assolutamente parlare di emulazione, bensì al massimo di virtuose affinità.
Il K. 453 rimane particolarmente impresso nella memoria. La parte orchestrale, innanzitutto, viene letta con un rigore elegante, che riesce a non sacrificare nulla della leggerezza fluida del periodare mozartiano. Allingresso del pianoforte, tuttavia, il contesto sonoro si trasforma. Inizialmente, ci si convince semplicisticamente- che tutto sia merito del tocco di Anderszewski: la tavolozza timbrica è ricchissima, pur rimanendo sempre entro i colori del classicismo più tradizionale. Di certo, la fine ed incessante calibrazione del tocco è ciò che contribuisce in massima parte alle qualità magnetiche dellesecuzione: diventa quasi impossibile distogliere lattenzione dal solista, benché questi mantenga un atteggiamento esecutivo di completa sobrietà e concentrazione. Arrivati allo sviluppo del primo movimento, si inizia però a cogliere quello che è il valore aggiunto dellinterpretazione di Anderszewski, che va al di là della mera fascinazione acustica. Questo Mozart vive di struttura, e non di puro suono: larchitettura della composizione è la base reale su cui si appoggia il pianista per dare energia alla sua coinvolgente lettura. La chiave per descrivere la prospettiva di Anderszewski, e lelemento propulsivo con cui si fa vivere il K. 453 (ed anche il K. 456, che pure sembra alla fine leggermente meno intenso), alla fine non sembra essere il suono, ma il silenzio. Non è questa, come potrebbe parere, unaffermazione retorica: Anderszewski, di fatto, cerca negli snodi della forma mozartiana, nelle suture tra le grandi sezioni del discorso o tra le piccole articolazioni delle frasi, occasioni per costruire attese. La lettera del compositore non viene mai tradita, ma i momenti in cui la musica si sospende, aspettando una risposta che prosegua il discorso, paiono sempre prolungati di un impercettibile istante. Si ha quasi la sensazione di unostensione in controluce dei concerti, che fa scoprire tra le pieghe ordinate del classicismo una trama scura ed inquieta. È in questo senso, che si potrebbe parlare di un parallelismo tra Brendel e Anderszewski : in più, però, il pianista polacco sfrutta la riscoperta del sostrato scuro di Mozart per alimentare una tensione drammatica inarrestabile, quasi narrativa, che sembra talvolta sfiorare i terreni dellopera lirica. Lidea è ambiziosa, ma completamente convincente.
Di alto valore anche lesecuzione della Sinfonia n. 47 di Haydn, in apertura di serata. Matteo Scarpis dirige con gesto sicuro e pulito, trovando un giusto bilanciamento tra dinamismo aggraziato e saldezza della forma. Soltanto il Minuetto al roverso pare meno sciolto, ma lespediente del palindromo musicale merita giustamente di essere rimarcato con ironica seriosità. Unico neo del programma, il Moz-art à la Haydn di Schnittke: non certo per via di Scarpis, nuovamente ottimo, né per lOrchestra di Padova e del Veneto, che anzi si conferma una formazione dalle qualità uniche, in quanto a valore e versatilità. È proprio il brano in sé, a sembrare fuori posto: che si tratti di un omaggio al classicismo maturo è in realtà evidente, ma la maniera in cui si cerca un trait dunion tra Mozart e Haydn (facendo un centone di passi celebri mozartiani rivisitati con armonie contemporanee, mentre i musicisti deambulano sul palco e poi se ne vanno uno ad uno a imitazione della Sinfonia degli Addii haydniana) pare meccanica e perfino un po superficiale. Non aiuta la curata coreografia dei movimenti e delle luci: il tutto, anche perché incorniciato dalle esecuzioni fuori dellordinario di cui si è detto, ha infine qualcosa di freddo e poco convincente.
Marco Bellano, dalla rivista online NonSoloCinema, anno VI n. 6 – © 2009
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