Interviste

Un colloquio con Tan Dun

17 Set 2009

Il 46° Festival “Arturo Benedetti Michelangeli” ha fornito occasione per una prima collaborazione artistica tra il celebre compositore Tan Dun e l’Orchestra di Padova e del Veneto. Il 16 maggio 2009 a Bergamo, e il 17 a Brescia, l’Orchestra (con la partecipazione di elementi dell’Orchestra del Festival) si è confrontata con il repertorio del Maestro cinese: in programma il Paper Concerto e The Map, con Enrico Bronzi solista al violoncello.
Abbiamo incontrato il Maestro durante le prove generali, svoltesi a Padova il 14 maggio.

Che impressioni ha tratto dal suo lavoro con l’Orchestra di Padova e del Veneto?

Penso che l’Orchestra di Padova e del Veneto sia una delle migliori, per della musica che sia nuova. I musicisti sono molto rapidi nell’entrare in sintonia con la partitura. Mi sembra che sia semplice, per loro, interiorizzare le idee musicali: per questo sono al tempo stesso rapidi ed emotivamente coinvolti.

Può fare un breve commento al programma che ha scelto di presentare?

Questo programma intende essere una convinta dichiarazione a proposito di due concetti molto importanti. Il primo è il concetto di avanguardia. Intesa come un intento rivoluzionario mescolato al rispetto di una tradizione. In effetti, ciò che si chiama “tradizione” ha sempre avuto, in sé, delle spinte all’innovazione. Ed è proprio il concetto di “tradizione”, il secondo sul quale voglio concentrare la mia attenzione in questo concerto. La tradizione sta scomparendo. Il Paper Concerto affronta tale problema. In tempi remoti, in Cina s’iniziò a fare musica usando della semplice carta. Ma di tale pratica, oggi, si è persa memoria. Io ho provato allora a far rinascere questa tradizione. Qualcosa di simile avviene anche in The Map, ma in maniera molto più spirituale. Questa “mappa” cerca di trovare una strada per riportare persone o culture morte alla vita tramite un discorso musicale.

Il rapporto tra tradizione ed avanguardia ricorre in maniera costante nella sua produzione, ad esempio, nelle sue recenti Internet Symphonies…

Sì, è così. Ad esempio, la Internet Symphony n. 1, che cita l’Eroica, è sottotitolata: “Deconstructing Beethoven”. La decostruzione della musica è stata condotta con un metodo essenzialmente visivo, come se si trattasse di un mosaico da smontare. I motivi di Beethoven sono stati sottoposti a qualcosa che può essere chiamato “contrappunto culturale”, oppure “contrappunto geografico”. La Internet Symphony n. 2 è invece basata sulla musica hip-hop. La n. 3 è un lavoro atonale, e in particolare dodecafonico. Nella n. 4 ho scelto di integrare nella composizione la musica jazz, mentre la Internet Symphony n. 5 prevede libera improvvisazione. Tutte e cinque queste composizioni cercano di rivolgersi ad un pubblico contemporaneo e giovane, intendendo suscitare interesse e spunti di riflessione; eppure, l’orchestra che ho usato è essenzialmente tradizionale.

La sua volontà di coinvolgere le nuove generazioni in progetti musicali rilevanti ha dato origine anche alla recente esperienza della YouTube Orchestra. Qual è il suo giudizio sui risultati di tale iniziativa?

L’iniziativa ha avuto un considerevole successo: le persone che hanno seguito il progetto, in tutto il mondo, sono state circa quindici milioni. Come risultato educativo, si sono avute a livello mondiale molte più persone interessate alla musica classica, e soprattutto alla musica contemporanea, d’avanguardia: a metodi per reinventare la musica classica. Del resto, è proprio rielaborando il passato che la musica, storicamente, ha saputo progredire. Basti pensare a cosa è successo in Italia con Respighi. O in Francia con Debussy. Prima di Debussy, la musica francese aveva una certa fisionomia; dopo, furono le opere di Debussy a segnare il riferimento storico per quella musica. Qualcosa di simile è successo a me. Prima di me, la musica cinese non aveva affatto le caratteristiche attuali. Non esisteva nemmeno più una consuetudine con l’orchestra. Ora, finalmente, si è iniziato a re-inventare, a recuperare e trasformare il passato. I giovani amano molto reinventare: e questo, secondo me, è lo scopo ultimo della “musica classica” oggi.

La sua musica si unisce spesso all’immagine, nella sua opera. La sua è dunque un’arte che si può chiamare “multimediale”?

Per me, il termine “multimediale” non indica la mera unione di immagini e suoni. Per me, qualcosa di “multimediale” deve possedere una sorta di “tessitura temporale”. È la chiave del mio concetto di “contrappunto” tra diverse culture, o tra diversi luoghi dello spazio-tempo. Questo, per me, è “multimediale”. Per esempio, in The Map, si vede sullo schermo una ragazza che canta. L’orchestra presente in sala la accompagna. Ma quella ragazza stava cantando dieci anni fa. Dieci anni dopo, persone di Padova si raccolgono attorno alla sua immagine, e fanno musica. E se di anni ne passassero cinquecento? Non cambierebbe nulla: quella ragazza è destinata a continuare a parlare, anche alle persone del futuro. Questo è il contrappunto dello spazio-tempo, questo è multimedialità. È multimedialità con le qualità dell’etnomusicologia. Se invece consideriamo certi spettacolari spot televisivi, certi videoclip di MTV, ecco, quella per me non è multimedialità. Per me, multimedialità deve essere una nuova forma d’arte, alla ricerca di un rapporto fra diverse epoche e culture.

Sempre a proposito di multimedialità, lei è anche compositore per il cinema, vincitore di un premio oscar per La Tigre e il Dragone (Wo hu cang long, Ang Lee, 2000). Qual è il suo approccio alla musica per film?

Amo la musica per film. Oggi i compositori possono veramente affrontare qualsiasi genere di musica. Al tempo di Beethoven, si poteva scrivere musica da camera, musica sinfonica, opera, e via dicendo. Oggi, oltre a tutti questi ambiti, abbiamo anche la radio, la televisione, il cinema. Ogni contesto è differente: anche considerando solo la musica da camera, la sinfonica o l’opera, ci si accorgerà che vi è un pubblico diverso per ogni “genere”. La musica per il cinema richiede un approccio molto preciso. Deve essere molto chiara, e deve seguire la struttura del film: non si può seguire una retorica sinfonica astratta. Così come non si può seguire la retorica della musica da camera per scrivere un’opera lirica. Per me, scrivere musica per film è qualcosa che considero estremamente artistico e creativo: è una sfida. Questo non vuol dire che della musica così composta non possa venir eseguita nelle sale da concerto. Essa, in ogni contesto, manterrà la sua specificità: così come accade al jazz, a Beethoven o a Monteverdi.

Qual è la sua opinione sulla musica “classica” contemporanea?

Difficile dire cosa sia “classico” oggi… Si potrebbe forse parlare di “musica con intenti artistici”. Comunque, credo che un panorama musicale ideale dovrebbe essere composto di individui, più che di tendenze generalizzate. All’inizio del ventesimo secolo, artisti come Respighi, Stravinsky, Debussy, hanno segnato la storia della musica senza che però tutta l’Europa si adeguasse ad uno dei loro stili. Trovo che, invece, la musica del tardo Novecento e di oggi soffra di omogeneizzazione. Dopo Darmstadt, dopo certe esperienze francesi, i giovani compositori finirono per scrivere tutti allo stesso modo, in ogni parte del mondo. La storia della musica, al contrario, incoraggia la ricerca di vie differenti, singolari. Ecco perché io sono “scappato”, e non posso dire di appartenere ad alcuna “scuola” o corrente di musica contemporanea. È qualcosa che andrebbe fatto in ogni ambito artistico.

Marco Bellano

Biglietti

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I biglietti sono in vendita online su WEBtic e dal 15 marzo anche presso Gabbia Dischi (via Dante 8, Padova). Si precisa che i posti non sono numerati: la scelta del posto nella pianta risponde esclusivamente ad una esigenza di carattere tecnico e non è in alcun modo vincolante.


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