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L’OPV in prima serata su Radio3

27 Gen 2010

Domenica 31 gennaio Radio3 trasmetterà in prima serata nel cartellone di “Radio3 Suite” il concerto dell’Orchestra di Padova e del Veneto registrato alla Biennale Musica (Venezia, Teatro alle Tese) lo scorso 30 settembre.
Il programma, diretto dal maestro Renato Rivolta, comprende musiche di Ivo Nilsson (la prima esecuzione assoluta di “More Objects with Destinations”, 2009), John Adams, Igor Stravinskij, Anton Webern e Frank Zappa.

Per saperne di più
Visita le pagine che il sito della Biennale di Venezia e quello di Radio3 dedicano al concerto.
Una recensione (quella di Massimo Contiero per Il Mattino di Padova) è invece disponibile sul nostro sito nella sezione Recensioni.

Biglietti

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I biglietti sono in vendita online su WEBtic e dal 15 marzo anche presso Gabbia Dischi (via Dante 8, Padova). Si precisa che i posti non sono numerati: la scelta del posto nella pianta risponde esclusivamente ad una esigenza di carattere tecnico e non è in alcun modo vincolante.


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Interviste

Vladimir Ashkenazy: un ritratto

25 Gen 2010

Tra l’Orchestra di Padova e del Veneto e Vladimir Ashkenazy esiste ormai un solido rapporto artistico. Il concerto di gala a chiusura del Festival “Incontri in Terra di Siena” è stato solo l’esito più recente della collaborazione tra il Maestro russo e la formazione Veneta: nella Villa rinascimentale della Foce a Chianciano Terme, lo scorso 25 luglio, Ashkenazy ha proposto un programma novecentesco dalla fisionomia particolare, inaugurato da composizioni celebri quali la Sinfonia n. 1 op. 25 “Classica” di Sergej Prokofiev e “Verklärte Nacht” op. 4 di Arnold Schönberg, ma suggellato con un brano poco frequentato dalle stagioni concertistiche, scritto per un organico decisamente insolito: “Aubade”, di Francis Poulenc.

Maestro Ashkenazy, quali impressioni sta ricevendo da questa sua nuova collaborazione con l’Orchestra di Padova e del Veneto?

Ho sempre apprezzato molto lavorare con questi musicisti: hanno un’alta professionalità ed ottime qualità musicali, oltre ad essere persone cordiali e piacevoli.

Il programma che proporrà al Festival è decisamente particolare: Prokofief, Schönberg, e poi un raro brano di Francis Poulenc. Che ragioni la hanno portata a compiere questa selezione?

Il brano di Poulenc, in realtà, non ha alcuna relazione particolare con la prima parte del programma. Questo anche perché il Festival stesso favorisce la creazione di programmi inusuali: si è invitati a presentare ogni genere di musica che abbia motivi d’interesse. Aubade si suona molto di rado. Il pezzo originale è destinato ad una ballerina, accompagnata da un piccolo gruppo cameristico, di diciotto strumenti. La ballerina necessita di un paio di altre interpreti “di supporto”, che in realtà non danzano, ma si limitano a passare alla protagonista oggetti, ad esempio strisce di tessuto, mentre commentano l’azione scenica. Alla première, a Parigi, la parte pianistica fu suonata dallo stesso Poulenc, e la coreografia fu curata da George Balanchine. Quest’ultimo volle che a danzare fossero una donna ed un uomo: Poulenc per questo s’irritò molto, ma non poté opporsi a Balanchine. Noi proporremo dunque la versione originale, con una sola ballerina. È un brano affascinante, riguardante Diana, la dea della caccia. Non ha una storia in senso proprio, ma costruisce una serie di suggestioni: c’è una donna giovane e bella, che è anche una dea: ha dunque delle responsabilità. Mentre danza, delle persone si fanno avanti e le dicono: non puoi danzare, devi recarti nella foresta ed adempiere ai tuoi doveri. Così lei parte, e abbandona per sempre il mondo. È una storia triste, e in un certo senso ha a che fare con la nostra stessa esistenza. Dura solo venti minuti, ma credo sia importante che il pubblico possa conoscere quest’opera.

Essendo lei stesso pianista, oltre che direttore d’orchestra, come ha impostato la sua collaborazione con Pascal Rogé, che sarà tra gli interpreti di Aubade?

Pascal è un mio buon amico. Al tempo del suo debutto in pubblico (credo avesse sedici, o diciassette anni), ricevetti un messaggio in cui mi si chiedeva di ascoltare questo pianista francese, che dicevano avesse grande talento. Rogé venne a Londra e suonò per me: lo apprezzai moltissimo, aveva molte qualità musicali. Gli dissi che meritava di essere aiutato, ed oggi è riuscito a costruirsi un’ottima carriera. Spesso ho diretto brani in cui è stato solista.
Sono state molte le sue esperienze con orchestre italiane: a parte quella attuale, lei ha anche tenuto dei concerti a Roma alla fine della scorsa primavera, presso l’Accademia di Santa Cecilia.

Qual è la sua opinione sul la situazione attuale della musica e delle stagioni concertistiche in Italia?

Ho un ottimo rapporto con l’Italia, avendovi sempre trovato musicisti di solida preparazione. Negli scorsi tre anni, in particolare, sono tornato per tre volte a Roma come direttore d’orchestra. Con Padova, poi, la collaborazione è stata particolarmente estesa: abbiamo anche affrontato una tournée, arrivata sino in Giappone, ed abbiamo inoltre effettuato delle registrazioni. Quella di Padova e del Veneto è un’Orchestra di alta classe, non ho che commenti positivi.

Delle sue esperienze, oltre al pianismo e alla direzione d’orchestra, ha fatto parte anche un approccio alla composizione, con una sua versione orchestrale dei Quadri di un’esposizione di Modest Mussorgsky: crede che avrà occasione di dedicarsi ancora a simili attività in futuro?

In realtà, non sento di potermi definire “compositore”. Per orchestrare basta avere una buona conoscenza dell’orchestra sinfonica, conoscenza che ho sviluppato in tanti anni da direttore d’orchestra, portando a piena realizzazione un’inclinazione che ho sentito di avere sin da bambino. Certo, non sono un orchestratore abile come Ravel o Debussy, ma ho svolto il mio lavoro in una maniera molto precisa. Non ho cercato di orchestrare “bene”, ma cercando un “suono russo”, ovvero un suono denso, ricco di colore: credo alla fine di aver raggiunto il mio obiettivo. L’orchestrazione di Ravel è fantastica, ma forse troppo elegante per Mussorgsky. Mussorgsky raggiunge i suoi obiettivi essendo pesante, goffo: ho quindi cercato di avvicinarmi alla sua maniera di esprimersi.

Quali, secondo lei, sono stati gli artisti che maggiormente la hanno influenzata, sia come pianista che come direttore d’orchestra?

Difficile a dirsi. Dovrei fare moltissimi nomi. Sin da quando ero un adolescente capii, quasi irrazionalmente, che non si può essere influenzati da una sola fonte, ed in una sola direzione. Così, ho fatto quasi un motto dell’avere una mente aperta verso ogni tipo di manifestazione musicale. Rispondo a sollecitazioni che vanno da Bach a Shostakovich, e in mezzo vi è così tanto! Io sono soltanto un esecutore, e posso solo limitarmi a cogliere i suggerimenti lasciati da moltissimi talenti nei secoli passati. Sono sempre stato impressionato da chi ha il dono della creatività (alcuni compositori furono persino poeti), ma io non ho altra capacità che quella dell’esecuzione di opere altrui. È questo un livello artistico molto inferiore, a mio parere. Non si tratta di falsa modestia: credo sia semplicemente un punto di vista realistico. Certo, anche noi esecutori abbiamo qualche “dono” artistico, grazie al cielo. Ma a noi rimarrà sempre preclusa la comprensione del creare, di ciò che permise a Bach, a Brahms, a Rachmaninov, a Debussy, di scrivere le loro pagine. Il dono della creatività è forse il più grande al mondo. Lo paragono al talento di scoprire leggi celate nel mondo, consegnandole poi alla storia, come seppero fare Einstein o Newton. Posso dire di essere fortunato, però, poiché almeno sono in grado di capire una grande parte del repertorio musicale: da Bach a Shostakovich, come dicevo. So quali sono le differenze tra i loro stili, i contesti in cui scrissero, e so dunque in che modo possono “parlarci” nella maniera più proficua. Con questo, non voglio dire che ho successo in ogni mia interpretazione. Nessuno ha successo in tutto ciò che fa: quel che faccio è allora tentare, con tutte le mie forze, di capire tutto ciò verso il quale provo attrazione. Parlando invece di chi mi ha influenzato come esecutore, devo di nuovo dire che occorre considerare un campo molto vasto. Ho molti amici pianisti e direttori d’orchestra, e li ammiro molto. Maurizio Pollini, Alfred Brendel, Daniel Barenboim, Itzhak Perlman… Dovrei proseguire con l’elenco, e non vorrei dimenticarmi di menzionare nessuno, poiché ciascuno di loro porta alla musica qualcosa di unico. Da loro si impara certamente, anzi, di più: si “assorbe”. Non imito, tuttavia, perché ho il mio particolare punto di vista sulla musica. Siamo molto fortunati ad avere così tanti talenti nel mondo: altrimenti, le cose sarebbero così noiose!

Le sue collaborazioni con questi talenti sono avvenute anche nei territori della musica da camera. Prevede di affrontare ancora il repertorio cameristico, in futuro?

Non saprei. Ho già fatto molto in quell’ambito, e registrato molto. Ad esempio, tutte le sonate per violino di Beethoven, tutte quelle per violoncello, tutti i trii… Non ho certo suonato tutto ciò che esiste nel repertorio, ma ho affrontato veramente molte composizioni. Non posso certo lamentarmi. Attualmente, però, non pratico più la musica da camera per motivi di tempo. La direzione d’orchestra ormai mi impegna totalmente. Riesco tuttavia a trovare occasioni per suonare con mio figlio Vovka. Eseguiamo brani a due pianoforti: stiamo progettando un tour, e recentemente abbiamo registrato un CD per Decca, con brani di Debussy e Ravel per due pianoforti. Uscirà in agosto, credo che abbiamo fatto un buon lavoro. Il mio altro figlio, Dimitri, è invece un buon clarinettista. Spesso mi invita a suonare con lui, e a dirigere brani orchestrali in cui è solista.

Nonostante l’opera non sia uno dei principali ambiti artistici da lei frequentati, lei è attualmente impegnato in una registrazione dell’opera Monna Vanna di Rachmaninov. Cosa l’ha spinta ad intraprendere questo progetto?

Pur non avendo avuto molte occasioni di dirigere opere, apprezzo molto quel repertorio. È solo per motivi di tempo che non riesco a dedicarmi all’opera: non ho materialmente la possibilità di affrontare tutte le prove richieste per allestire uno spettacolo di tale genere. Anche per questo, ho in genere diretto esecuzioni di opere in forma di concerto, e non allestimenti effettivi. Forse in futuro capiteranno le circostanze giuste, e allora potrò dedicarmi ad un’opera in maniera piena. Parlando ora di Monna Vanna: Rachmaninov non ha lasciato molto al repertorio operistico, dal punto di vista quantitativo. Le sue sono opere brevi, ma non per questo trascurabili. La storia alla base di Monna Vanna è assolutamente vera, anche se è tratta da Maurice Maeterlinck: il dramma è basato su fatti storici. Monna Vanna fu, nel quindicesimo secolo, la moglie del pisano Guido, comandante della milizia impegnata a difendere la sua città dall’assedio delle truppe fiorentine. Guido apprese da suo padre che il nemico avrebbe cessato le ostilità solo se Vanna si fosse recata nell’accampamento fiorentino vestita solo di un mantello. La donna acconsentì. Rachmaninov fu molto colpito da questa vicenda, e si dedicò alla composizione con dedizione. Tuttavia, non completò mai il suo lavoro. Ad un certo momento gli giunse notizia di un problema di copyright: la storia era già stata assegnata ad un altro compositore, Henry Février. Ha lasciato dunque, a malincuore, solo degli abbozzi non orchestrati, scritti su pochi pentagrammi. L’opera non fu mai rappresentata. Io ho ottenuto il manoscritto relativo al primo atto, andando alla Library of Congress, a Washington. La musica è per solo pianoforte, dunque su due pentagrammi. È stata orchestrata da un direttore di origini russo-americane di nome Igor Buketov, e registrata per Chandos con la Icelandi Symphony Orchestra. Fu una buona registrazione, ma con un problema: il testo fu cantato in inglese, mentre avrebbe dovuto essere in russo. Sono riuscito fortunatamente ad ottenere il libretto originale, e durante lo scorso mese (giugno) ho provato un’esecuzione con l’Orchestra del Conservatorio di Mosca (un’orchestra decisamente notevole). Gli studenti sono stati eccellenti: abbiamo anche fatto un concerto pubblico, registrando inoltre tutte le prove. Con tre ore di registrazioni, abbiamo sostanzialmente dato forma all’intero primo atto dell’opera (dura solo quarantacinque minuti). Ho usato anche un’orchestrazione differente, opera di un compositore di San Pietroburgo di nome Berlov. Credo di preferire la sua versione a quella di Buketov, che pure era buona. Spero ora di poter trovare una persona che sappia completare l’opera. Credo che manchi solo un’ora di musica, comprendente secondo e terzo atto. Nel secondo atto, Monna Vanna si reca dal nemico, con il solo mantello indosso, ma non accade nulla. L’uomo le dice: ti amo da quando eri bambina, ed è per questo che ti ho fatto venire da me. La donna viene poi lasciata libera di tornare a Pisa, dove però incontra l’ostilità di suo marito, che la accusa di aver dormito con il nemico. Il nemico viene infine incarcerato, ma l’opera ha un lieto fine: Monna Vanna libera l’uomo, e parte con lui, lasciando la sua città. In realtà, penso di aver già trovato il compositore che potrebbe essere in grado di affrontare il completamento dell’opera. Per ora, visto che il lavoro non è ancora stato ufficialmente assegnato (ho parlato con lui solo due settimane fa), preferirei non fare il suo nome. Posso solo dire che è inglese, e che ha da sempre desiderato comporre come Rachmaninov, essendo naturalmente incline a scrivere nel suo stile. Se tutto andrà per il meglio, penso che tornerò al Conservatorio di Mosca per terminare il lavoro di registrazione e dare finalmente a Monna Vanna la sua forma definitiva.

Un altro suo progetto recente riguarda la registrazione delle Partite di Bach.

Sì, un progetto impegnativo. Ne ho registrate sinora tre, forse riuscirò a registrarne ancora due e mezza in agosto. Credo che il disco sarà pronto per dicembre, ed uscirà per Decca. Le Partite sono state una sfida. Occorre interpretarle in modo semplice, senza affettazione. Il lavoro, per me e i tecnici, è stato duro. Delle Partite conoscevo diverse registrazioni che non mi avevano soddisfatto appieno. Glenn Gould fu fantastico, naturalmente, ma anche così particolare, idiosincratico direi. Ascoltandolo, a volte si rimane stupiti, a volte viene da dire: io non avrei mai fatto una cosa del genere! Ma, non si può discutere: Glenn fu un genio. Ho avuto la fortuna di incontrarlo personalmente.

E quali sono state le sue impressioni?

Un uomo straordinario… anche se un poco bizzarro. Un genio, ripeto. Ho un bel ricordo di un pranzo con lui a Toronto: sapeva come mettere i suoi interlocutori a loro agio, era cordiale ed intelligente. Rammento che parlammo di pianoforti, e di come ottenere quell’assoluta chiarezza di suono che cercava nelle sue registrazioni. Gli feci una proposta: conosco un uomo in Svezia, dissi, che costruisce pianoforti. Forse ha lo strumento adatto a te. Va bene, mi rispose, fammi sapere. Due anni dopo ci incontrammo di nuovo, ed io avevo effettivamente trovato un pianoforte che, secondo me, avrebbe potuto incontrare il suo favore. Ma Glenn declinò gentilmente la mia offerta, e così non potei essergli d’aiuto. Era troppo legato allo Steinway che aveva personalmente messo a punto. Voleva una chiarezza assoluta nell’esecuzione, al limite della pedanteria: questo era perfetto per Bach, e magari anche per i classici, come Mozart, ma certo non avrebbe potuto ben adattarsi alla musica romantica. Ad ogni modo, non riesco ad immaginare registrazioni delle Variazioni Goldberg che possano superare le sue, ed in particolare la seconda.

Glenn Gould era famoso per il suo controllo attento di ogni fase delle operazioni di registrazione. Qual è, invece, il suo coinvolgimento nella lavorazione del disco seguente all’esecuzione?

Non mi capita di sedermi assieme ai tecnici. Però, durante le sessioni di registrazione, indico con accuratezza quali sono le esecuzioni che ritengo più riuscite, e se per qualche motivo poi mi accorgo che la registrazione finale è stata costruita in maniera errata, magari inserendo del materiale che avevo deciso di scartare, allora mi reco dal produttore e lo prego di correggere la svista. Quindi opero il mio controllo in due momenti distinti: subito dopo la registrazione, e quando mi viene inviato il disco con il primo montaggio del materiale. Nella maggior parte dei casi, in realtà, non si presenta alcun problema: ho la fortuna di lavorare con produttori molto professionali.

Quali sono i suoi prossimi progetti discografici, oltre a quanto ha già menzionato?

La situazione alla Decca, in questo momento, è delicata: è da poco stato nominato un nuovo responsabile per la musica classica, e non so che genere di attività discografiche voglia intraprendere con me. Con il responsabile precedente si era parlato di lavorare ulteriormente su Bach. Personalmente, mi piacerebbe affrontare ciò che mi manca per completare la registrazione integrale dell’opera pianistica di Rachmaninov. Ad esempio, non ho mai registrato le Variazioni su un tema di Chopin op. 22, o la prima Sonata. Di sicuro non sono tra le creazioni migliori di Rachmaninov, ma credo che potrei studiarle, per completare il mio lavoro. Penso che, nel caso, mi ci vorranno almeno un paio d’anni: sono un bel po’ di note da imparare! Assieme a questi, dovrei registrare anche pezzi brevi, alcuni dei quali senza numero di opus. Possiedo già gli spartiti di tutti. Uno di essi era conservato alla Library of Congress, in forma di abbozzo incompiuto. È un brano molto raro, registrato una sola volta sinora, da un pianista australiano. Non credo che lo farò pubblicare, il manoscritto non è in buone condizioni. Ma si può comprendere abbastanza bene di che si tratta. Non si può dire che sia un capolavoro, ma nel caso si presentasse l’occasione lo registrerei senz’altro. Amo molto Rachmaninov, ed ho già registrato tutta la sua musica orchestrale.

Per concludere, una domanda su un argomento che, in parte, si allontana da quanto è stato sinora toccato in questo colloquio. Alcuni film, più o meno recenti, hanno fatto uso di sue interpretazioni. In che maniera lei è stato coinvolto nella lavorazione di tali pellicole?

In realtà, spesso l’utilizzo di mie interpretazioni viene concordato direttamente tra i produttori dei film e le case discografiche, senza che io venga interpellato. C’è stato, però, un caso recente in cui sono stato coinvolto direttamente nella lavorazione di un film. Mi riferisco ad un film d’animazione giapponese, Piano no mori (The Piano Forest, Masayuki Kojima, 2007). I produttori mi hanno convocato ben prima che il film fosse ultimato. La storia mi piaceva, così ho accettato di collaborare. Ma ho anche fatto qualche appunto alla sceneggiatura. La bozza originale non era sempre del tutto appropriata, nell’affrontare il mondo del pianismo e della musica in generale. Ho dunque suggerito i necessari aggiustamenti, per rendere la narrazione più pertinente. I cambiamenti, dopo uno scambio d’opinioni con il regista, sono stati accettati. Purtroppo non ricordo esattamente quali furono le modifiche che suggerii. Credo tuttavia che il film, nella sua versione definitiva, dia una chiara idea di ciò che distingue il talento reale dalla pura immaginazione: un messaggio che mi è parso significativo.

Marco Bellano

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La Biennale di Venezia: l’OPV all’Arsenale della Danza

18 Gen 2010

Dopo il concerto al Teatro alle Tese dello scorso 30 settembre (leggi la recensione di Massimo Contiero), l’OPV sarà partner della Biennale di Venezia nella realizzazione di “Aria”, lo spettacolo di Ismael Ivo, che concluderà L’Arsenale della Danza e inaugurerà contemporaneamente il 7° Festival Internazionale di Danza Contemporanea.

L’Arsenale della Danza è stato presentato dal Presidente della Biennale di Venezia, Paolo Baratta, e dal direttore del Settore Danza, Ismael Ivo, in occasione della conferenza stampa di venerdì 15 gennaio a Ca’ Giustinian a Venezia. Nato dalla volontà di incentivare le energie creative delle nuove generazioni, l’Arsenale della Danza, a un anno dalla sua istituzione, precisa la sua fisionomia come centro di alta formazione nella danza contemporanea e spazio polifuzionale di produzione artistica, un cantiere di lavoro aperto al confronto tra la danza e le altre discipline – dal teatro alle arti visive e all’architettura, dalla drammaturgia alla scenografia – dove i giovani selezionati provenienti da Venezia, dal Veneto e da tutto il mondo diventano attori del processo di creazione coreografica in tutti i suoi aspetti, fino al confronto finale con il pubblico internazionale della Biennale.

“Aria” suggella il percorso di formazione dell’Arsenale della Danza e verrà presentato in prima assoluta il 26 maggio (replica il 27 maggio) al Teatro alle Tese. Con la musica tanto profonda quanto eterea di “Fratres” di Arvo Pärt, eseguita dal vivo dall’Orchestra di Padova e del Veneto, la performance si ispira al tema dell’aria. “L’aria, che sviluppa il senso del respiro, è sorgente di movimento – scrive Ismael Ivo. […] Si possono spostare masse d’aria riempiendole con il movimento e rendere visibile l’invisibile. L’aria è come una presenza impalpabile, un’ingannevole fantasmagoria, un gioco di desideri invisibili e di visibili emozioni”.

Per saperne di più
Visita il sito della Biennale di Venezia e La Biennale Channel.

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H.C. Robbins Landon: in memoriam

15 Gen 2010

L’Orchestra di Padova e del Veneto ricorda la figura di Howard Chandler Robbins Landon, l’eminente studioso haydniano recentemente scomparso il 20 novembre 2009.

Nato a Boston nel 1926 e trasferitosi in Europa nel secondo dopoguerra, Robbins Landon fondò nel 1949 la Haydn Society iniziando la pubblicazione delle opere complete di Haydn: fra queste, la prima edizione di tutte le sinfonie e quella dei quartetti per archi. I suoi studi musicologici culminarono nei cinque volumi di “Haydn, Chronicle and Works” (Thames and Hudson, Londra, 1976–1980).

A Padova Robbins Landon curò la preparazione dell’incisione de “La Fedeltà Premiata” per Arabesque con l’OPV diretta da David Golub. In quella occasione Carlo De Pirro lo intervistò per “Il Mattino” (il testo integrale dell’intervista è riportato in calce).

Quella Padova che fu negli anni 1770–1780 una delle prime e poche città italiane – con Venezia, Genova, Firenze, Milano – in cui circolò la musica di Haydn, come testimonia, fra l’altro, l’Archivio dei Conti Papafava e la copia manoscritta de “Il ritorno di Tobia” conservata nella biblioteca della Basilica del Santo.

“Quel piccolo angolo nebbioso di terra – Padova, in Italia” al quale si riferisce Beethoven in una lettera del 13 maggio 1816 alla Contessa Anna Marie Erdödy (la dedicataria dei Trii op. 70 e delle Sonate op. 102): un nome che evoca la famiglia nobiliare ungherese che in momenti diversi incontriamo anche nella vita di Haydn.

Per saperne di più
Visita le pagine dedicate alla figura di H.C. Robbins Landon da Il Giornale della Musica, e dai principali quotidiani britannici e statunitensi (in inglese): The Guardian, Times On Line, Telegraph e New York Times.
Un ampio ritratto dello studioso, corredato da contributi originali degli anni ’60, è tracciato dal magazine Gramophone (in inglese).

Landon, il critico che tolse dalle tenebre dell’oblio Haydn e la sua musica
di Carlo De Pirro

Si dice, per ridurre la storia ad un’aforisma, che Haydn fosse l’ultimo musicista a poter festeggiare il Primo maggio. Altro che i moderni divi “leggeri”, viziati, ribelli per obbligo d’immagine ma dal solido conto in banca. Sentite cosa prescriveva il contratto di assunzione di Haydn presso la corte degli Esterhàzy, vergato per ironia della sorte proprio il Primo maggio del 1761: «Il detto Joseph Haydn sarà considerato un funzionario della casa… sarà sottomesso e saprà che deve trattare i musicisti a lui sottoposti senza arroganza, ma con dolcezza e indulgenza, con modestia, calma e onestà… dovranno presentarsi sempre in uniforme… in ordine con le calze bianche, la camicia bianca, incipriati, con la treccia o con la reticella… avrà l’obbligo di comporre tutta la musica che a Sua Altezza Serenissima il Principe piacerà ordinargli e si guarderà bene dal passare dette composizioni a chichessia e dal farle copiare… il detto si presenterà ogni giorno nell’anti chambre prima e dopo mezzogiorno per informarsi se sua Altezza ha piacere di ordinare all’orchestra un’esecuzione musicale… potrà mangiare alla tavola dei dipendenti e ricevere mezzo Gulden… Sua Altezza è libero di licenziarlo in ogni momento».
Remote umiliazioni, pensando al celebre incrocio tra l’Imperatrice, i duchi austriaci, Goethe e Beethoven. Con Goethe che «si mise da parte col cappello levato» e Beethoven che «passava in mezzo ai duchi toccando solo un poco il cappello, mentre essi si mettevano ai due lati per lasciargli la strada e tutti gentilmente lo salutavano». Si raccontano molte storie: quelle delle civiltà, della politica, delle arti. Questa di Haydn potrebbe appartenere alla sociologia dei lacché, se non dimenticassimo i regali alla storia scaturiti da quel rapporto: il suono che si trasforma nel tempo, l’invenzione del personaggio melodico, la costruzione della forma affidata alla simultaneità di pulsioni differenti. Categorie di un nuovo immaginario, inventate per prime dal linguaggio musicale e di cui i protagonisti del “classicismo” viennese erano ben consci di vendere all’inconscio collettivo.
Come ricorda una lettera di Mozart al padre, a proposito di alcuni concerti per pianoforte e orchestra: «Questi concerti sono proprio una via di mezzo tra i troppo difficile ed il troppo facile: sono molti brillanti, gradevoli all’orecchio senza cadere nella vacuità. In alcuni punti solo gli intenditori possono cavarne diletto, ma faccio in modo che anche i non intenditori restino contenti, pur senza saperne il perché».
Haydn fu l’ultimo grande stipendiato di corte, fedele servitore degli Esterhàzy – tranne una breve parentesi londinese – fino alla morte (1809). La fossa comune in cui fu sepolto Mozart potrebbe essere il macabro simbolo di come il pubblico pagante ora esalti ora dimentichi. Lo stesso vale per le amnesie della storia.
Howard Robbins Landon viene da Boston. Nel 1947 giunse in Europa come corrispondente di giornali e periodici americani. Fra le sue mete l’Austria, nazione che ostentava la quasi totale indifferenza per l’opera di Haydn.
Presto fatto. Landon fonda nel 1949 la Haydn Society, iniziando un’opera di ricognizione critica che si concretizzò, tra il 1976 ed il 1980, nei cinque volumi di “Haydn: Chronicle and Works. Senza mai disdegnare il sostegno militante alla diffusione discografica. Il cui ultimo capitolo passa per Padova, al seguito de “La fedeltà premiata”, dramma pastorale giocoso in 3 atti. In questa incisione si riforma la stessa squadra (David Golub a dirigere l’Orchestra di Padova e del Veneto, in una produzione dell’americana Arabesque) che ha di recente licenziato il cd di altri due lavori teatrali, “L’isola disabitata” e “Arianna a Naxos”.
Allo studioso americano domandiamo quale fosse la ricezione di Haydn nel dopoguerra. «Il problema principale – spiega Landon – era che il novanta per cento di ciò che aveva scritto non era né edito né inciso. Non bastava una semplice edizione scientifica, piuttosto convicere gli editori che queste partiture si potevano anche vendere. Iniziarono presto anche i contatti con gli interpreti. Il primo che ci aiutò fu Carlo Maria Giulini con cui mettemmo in scena al Festival d’Olanda nel 1959 “Il mondo della Luna” (su libretto di Goldoni). Poi Antal Dorati suggerì l’incisione del repertorio sinfonico. La Decca credette di cautelarsi proponendo royalty solo dopo diecimila copie vendute, ed invece chi stese il contratto si diede del cretino quando il primo disco (e anche i successivi) ne vendette un milione. Non bisogna dimenticare che quella del ‘700 era allora una lingua dimenticata. Tutto iniziò proprio nel dopoguerra con la rinascita di Vivaldi. In quell’interpretazione con eleganza, con sentimento (ma non sentimentale) e delicatezza. Questo ha cambiato la storia».
Che consigli ha dato durante l’incisione padovana?
«Con Golub si è discusso solo prima di iniziare. Qualche suggerimento sui pizzicati, su di un particolare effetto di corno, poi rivelatosi di modernità mahleriana, l’inserimento di una pagina inedita, grazie ad un manoscritto recuperato di recente a Locarno. Poi tutto ha funzionato alla perfezione: qualità degli archi, qualità degli strumenti usati, un vibrato con discrezione, e una disciplina “intelligente”, quel suonare più volte lo stesso passo senza perdere lo spirito iniziale. Si sentiva durante le prove la stessa umanità che ispirava Haydn. La stessa che ritrovo sempre in Italia, quando anche bellissime signorine si preoccupano di aiutare me, vecchio pensionato musicale, se devo fare qualche scalino».
Come potrebbe definire l’arte operistica di Haydn?
«Questa è musica graziosa e intellettuale al tempo stesso. Una combinazione di bellezza e cervello, matrimonio fra la vocalità italiana e la nuova scuola sinfonica viennese. Per questo allora era il musicista più popolare e celebrato al mondo».
Cosa rappresentava la musica per una corte come quella del Principe Nicolaus Esterhàzy?
«Allora qualunque membro dell’aristocrazia cantava o suonava. Perciò i successi di un compositore rendevano immenso prestigio alla corte. Altri tempi: oggi chi gestisce il potere non ha la minima idea dell’arte».
Come giudica l’attuale livello interpretativo?
«La qualità dei dischi oggi è incredibile, e questo ha molto educato i gusti del pubblico. Perfino l’Orchestra Filarmonica di Vienna è regolarmente massacrata dalla critica ogni volta che giunge in Inghilterra. Dove oggi si interpreta il “classicismo” con strumenti critici più coscienti e musicali. In questi cinquant’anni ho sentito con i miei orecchi una rivoluzione, per fortuna senza morti. E’ morto solo il gusto di seconda classe».

Il Mattino di Padova, 5 novembre 1999

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